URBAN FISH – Personale fotografica di Maria Cristina Madera

Ci sono due pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?” I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa “Che cavolo è l’acqua?”
David Foster Wallace – Questa è l’acqua, 2005

Il noto apologo di David Foster Wallace sull’invisibilità della cultura è la perfetta introduzione a URBAN FISH, personale fotografica di Maria Cristina Madera a cura di Eugenio Corsetti, che esplora i temi della street photography cercando di penetrare al di là delle mode culturali del momento. Si tratta di 22 foto bianco e nero, in mostra presso i locali del Laboratorio Fotografico Corsetti, in Via dei Piceni 5/7 a Roma, dal I al 15 aprile 2016.

Sfruttando le possibilità anamorfiche del fish eye, Maria Cristina Madera, ha inquadrato le dinamiche urbane, cogliendo soprattutto la dimensione spaziale del vuoto. Lo sguardo disincarnato della fotografa si muove tra strade e palazzi, come il “pesce anziano” di Wallace, in una serie di immersioni profonde, rivelando come l’estensione urbana sia frutto delle relazioni interpersonali, innescate innanzitutto dal vuoto. Un vuoto che l’amplificazione del fish eye esalta nella sua pienezza. Grazie alla palese artificialità della propria visione, URBAN FISH sposta il focus della street photography dall’istante esistenziale degli individui ritratti alla loro dimensione più propriamente comunitaria. Il vuoto urbano diventa l’unico spazio veramente abitabile della città, la soglia che permette un’infinita apertura all’avventura della visione e del pensiero.

URBAN FISH: le foto di Maria Cristina Madera. La vita psichica della città
Prof. Marco Pacioni, docente USAC-Università della Tuscia e giornalista de Il Manifesto

È attraverso il mezzo apparentemente più neutrale e inosservato dell’inquadratura che la fotografia ha portato a ulteriore rivoluzione la visualità e l’immagine – rivoluzione che il quadro in pittura aveva inaugurato secoli prima. L’apparente oggettività dell’occhio che guarda e ritrae come se esso fosse affacciato a una finestra si scontra sempre con la convenzione del ritagliodella porzione di reale che resta dentro i limiti quadrangolari della superficie fotografica.

Dal quadro pittorico che mette in soffitta tutte le altre forme che definivano le superfici dipinte, dai polittici alle pale, la fotografia espande a quasi tutti i mezzi della visualità la forma quadrangolare. Gli schermi che guardiamo, attraverso i quali siamo guardati e con i quali quotidianamente interagiamo ricalcano tutti tale format.

La tecnica del fish-eye in fotografia, pur non contravvenendo alla forma fisica esterna del quadro, riesce tuttavia a sottrarre a questo l’immagine fotografica. Qui artificialmente l’immagine acquisisce una dimensione sferica, tridimensionale, paradossalmente più prossima alla realtà della visione cosiddetta naturale. Natura ottenuta da un artificio che appare più innaturale dell’artificio bidimensionale della forma-quadro. Anche in ragione del chiasmo che qui lega natura e arte, la tecnica del fish-eye ottiene risultati particolarmente interessanti quando il soggetto fotografato è la città, come avviene in questa serie di fotografie di Maria Cristina Madera.

Ancora oggi, lo spazio urbano appare visivamente come la modificazione più radicale nell’ambiente. La città costituisce la sottrazione di spazio più evidente alla natura. Edifici, muri, strade, pavimentazioni in alcuni casi riducono la visione di cose naturali quasi a zero. Nel tessuto urbano delle vecchie città europee a volte persino il cielo si vede a scaglie tra le linee continue o fratte dei tetti.

Introdurre la tecnica del fish-eye nello spazio artificiale per eccellenza qual è quello della città produce un effetto anti-straniante. Squadrando l’immagine, la forma-quadro fa sparire la lente, il tramite, i bordi del quadro. Il format della finestra è tanto più efficace quanto più fa entrare la visione dentro l’immagine, facendo dimenticare, per così dire, a chi guarda persino di aver aperto la finestra da cui osserva. I concavi e i convessi prodotti dalla tecnica del fish-eye invece accidentano il processo di immersione visiva nell’immagine. Essi così non solo sono in grado di restituire una misura che differenzia la visione dall’immagine, ma anche soprattutto di stabilire che c’è una distanza tra qualcuno che guarda e ciò che è guardato. Quella presa in esame da Madera è una città viva. Nel senso che vi figurano quasi sempre, direttamente o indirettamente, delle persone. Qui la sua fotografia non è interessata tanto a riscrivere le linee urbane e architettoniche, ma a vedere e quasi a suggerire come queste interagiscono con chi le abita. Queste linee abbracciano oppure respingono o, alternativamente fanno l’uno e l’altro.

In questo senso, esse definiscono paesaggi o scenari sentimentali: l’umano «legno storto» e le curvature convesse e concave dello spazio nel quale l’umano abita. Più che documentare come vedere gli spazi urbani, tenendo presente che c’è una distanza che li deforma, le fotografie di Madera sembrano fornirci volti della città abitata. Il rapporto tra volto e maschera, quando si considera il ritratto, dà vita a una dialettica infinita che trova parzialmente requie soltanto se si pone attenzione, per se stesso, al rapporto di combaciamento e respingimento della maschera sul volto. Analogamente a questo rapporto dialettico, le fotografie di Madera possono essere considerate come ritratti di città, gioco fra maschera e volto di essa. Un ritratto, nel senso tradizionale pittorico e poi fotografico del genere, per essere tale non può mai arrivare al grado zero della caricatura. E al contempo, il ritratto non può essere stravolto oltre la soglia dell’espressivismo perché ciò ne comprometterebbe il riconoscimento. In altre parole, il ritratto deve scegliere di far risaltare sempre alcuni tratti a scapito di altri e lasciare al gioco iper/ipo-visuale del concavo-convesso di suggerirci anche l’immaginabile attraverso quello che effettivamente vediamo. Tale immaginabile dovrebbe far emergere il cosiddetto spessore psicologico di chi è ritratto e quello poetico del ritratto. Sin dalla sua nascita pittorica uno degli elementi fatti risaltare addirittura per identificare il genere del ritratto da altre rappresentazioni iconografiche della persona, è la rinuncia a far combaciare completamente il piano del viso con quello della superficie pittorica o fotografica. Nei ritratti, una parte anche piccola del volto non si mostra, mentre un’altra è più in primo piano del resto.

Tutto ciò che appartiene alla tradizione del ritratto umano, Madera lo adatta alla città attraverso la tecnica del fish-eye. Ritratti urbani che però non vogliono tanto restituirci una presunta essenza nascosta della città. Quelle di Madera sono fotografie non monumentalizzanti. Anzi, al contrario della monumentalizzazione, la sua fotografia qui sembra più interessata a restituirci la città nella sua dimensione quotidiana.

I ritratti che essa ne offre non hanno protagonisti assoluti che spicchino né tra gli elementi architettonici né tra le persone. L’obiettivo principale di queste fotografie è lo stesso aver luogo dello spazio urbano abitato. In tal senso, i ritratti di questo spazio potrebbero essere appropriatamente definiti come note foto-visive della vita psichica della città.